Parole, pregiudizi e diritti
Il linguaggio descrive la realtà e il nostro modo di percepirla. Sappiamo anche che le parole fanno accadere delle cose. Ma è cambiato qualcosa rispetto a queste certezze di tipo tecnico e scientifico?
In questa rubrica riflettiamo sul buon uso della lingua per capire meglio ciò che ci circonda e come descrivere i cambiamenti culturali che sono in atto. Nel campo delle relazioni sociali, ma non solo. In fondo anche un po’ nel nostro intuito, cioè nella parte più oscura e irrazionale che abbiamo.
Per un approccio più laico alla questione linguistica proponiamoci quindi di uscire da canali ideologici e / o politici e cerchiamo di guardare il problema come un fenomeno umano. Cerchiamo di acquisire un occhio antropologico…
È certo che nel linguaggio della vita pubblica, l’uso generalizzato del maschile non consente di rappresentare fedelmente la realtà in cui viviamo. Possiamo considerare questa affermazione vera e priva di sussulti ideologici. Questo perché sempre di più siamo abituati a considerare le donne come facenti parte di, funzionari invisibili di strutture gerarchiche, dispositivi silenti di circuiti virtuosi.
Cioè – come leggiamo nelle Linee Guida redatte dall’Agenzia delle Entrate con prefazione di Claudio Marazzini- ci siamo abituati a pensare alle donne come componenti di un più vasto insieme di genere maschile (i cittadini, i lavoratori) o neutro, come nel caso dei titoli professionali e dei ruoli istituzionali (deputato, ministro, magistrato, medico, funzionario amministrativo, direttore). Un bitume che viene da lontano, quando le donne erano ai margini del mondo del lavoro, subordinate ad una vita familiare spesso opprimente in cui comunque il loro ruolo non era pienamente riconosciuto e valorizzato: la donna aveva diritti sociali, civili e politici diversi da quelli dell’uomo e veniva, di fatto, marginalizzata anche attraverso l’uso della lingua” .
Fatte queste logiche e lucide premesse, non possiamo però dimenticare che l’intervento sul linguaggio di genere è un atto difficile e complesso perché la lingua non solo è delicata ma è meravigliosamente ambigua, se serve.
Come ricorda sempre Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, a fronte delle polemiche che il linguaggio di genere suscita ancora oggi, al momento “i nomi femminili ministra, sindaca non dipendono dalla grammatica, che accetta sia il maschile tradizionale sia il femminile innovativo, ma da una battaglia ideologica trasportata nella lingua dalle donne (o da alcune di esse) quando conquistano nuovi spazi in politica e nel mondo del lavoro. La furia di chi ora avvia sgarbatamente la battaglia contro queste donne fa pensare che in fondo esse abbiano più ragione di quanto potesse sembrare”
Secondo la convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul, ratificata nel 2013), il cambiamento culturale basato sul superamento di pregiudizi e stereotipi, che passa anche attraverso un diverso uso della lingua, è il primo e fondamentale passo anche per prevenire la violenza di genere.
Ma allora che dubbi potremmo avere ancora? Il cammino che vi proponiamo in questa rubrica è volutamente lungo e segmentato per evitare di arrivare a facili e scontate conclusioni. Vi proporremo esempi, modelli e riflessioni a volte anche un po’ “off topic”, ma a nostro avviso utili per immergersi nel mare linguistico senza pregiudizi. Iniziamo subito con una domanda che sarà la nostra ancora argomentativi per il prossimo appuntamento. (àncora argomentativa?)
Se foste all’interno di un contesto pubblico e ricopriste un incarico gerarchico ben preciso, quasi vicino al peso istituzionale di un Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord (https://www.treccani.it/enciclopedia/charles-maurice-principe-di-talleyrand-perigord), come scegliereste di essere appellate: segretario o segretaria?
Rosa Revellino