3 ottobre 2013, mezzo miglio al largo delle coste lampedusane, vicino all’Isola dei Conigli: un peschereccio, salpato dal porto libico di Misurata si rovescia a causa dello spavento generato a bordo da un panno incendiato per attirare l’attenzione delle navi di passaggio. 368 morti, 20 dispersi, 155 sopravvissuti.
11 ottobre 2013, otto giorni dopo, di nuovo al largo di Lampedusa trovano la morte 268 persone, 60 sono minori. Viene ricordato con il nome di “naufragio dei bambini”.
Notte a cavallo tra il 18 e il 19 aprile 2015: al largo delle coste della Libia, un’imbarcazione eritrea si ribalta. 28 superstiti, 58 vittime, la stima dei dispersi ammonta, si presume, tra i 700 e i 900.
Notte del 26 febbraio 2023, Steccato di Cutro: a pochi metri dalla riva una barca di legno marcio si incaglia su una secca sabbiosa, la barca esplode sotto i colpi delle onde e va in mille pezzi. 79 i corpi rinvenuti finora, le persone trasportate erano almeno 170, i superstiti sono 81.
Dal 2014 sono stati quasi 25mila i migranti morti nel Mediterraneo mentre tentavano di fuggire da luoghi in cui c’erano guerre, fame o regimi sanguinari. Le rotte non solo sono pericolose per le correnti e per i venti, a questo si va ad aggiungere il fatto che gli scafisti forniscono ai migranti imbarcazioni di fortuna e, a volte, a guidarle sono i migranti stessi, addestrati sommariamente prima di partire. La politica tutta esprime rammarico e cordoglio per queste vite spezzate, ma le soluzioni che fornisce per risolvere questa situazione sono confuse; non meno divisa è l’opinione pubblica. Non poco frequente è una frase che si è fatta largo in questi anni “Aiutiamoli a casa loro”. Un proposito tanto generoso quanto ambizioso dal momento che i migranti arrivano da tante “case” diverse. Ma andando più in profondità: è davvero un proposito magnanimo? O piuttosto è l’ultimo rifugio degli ipocriti? Infatti cosa abbiamo fatto, noi europei, alle loro “case”?
Grazie all’apertura del canale di Suez nel 1869 e all’attività di numerosi esploratori che si spinsero all’interno del continente africano, le potenze europee intensificarono la conquista dell’Africa (1880-1885): la Francia si estese nell’Africa occidentale ed equatoriale, l’Inghilterra in Egitto e nella parte australe ed orientale del continente, l’Italia iniziò ad esercitare la propria influenza nell’Africa orientale, anche la Germania fece la sua comparsa nel continente, non di meno il Belgio nel Congo e il Portogallo in Paesi quali l’Angola e il Mozambico. Agli albori del Ventesimo secolo l’Italia si dedicò alla conquista delle province ottomane di Tripolitania e di Cirenaica dopo aver acquisito sul finire dell’Ottocento l’Eritrea e la Somalia. Allo stesso tempo, nel 1912, la Francia stabilì il protettorato sul Marocco. Dopo la prima guerra mondiale la Società delle Nazioni assegnò alcune province dell’impero turco e la totalità delle colonie tedesche all’Inghilterra, alla Francia, al Belgio e al Giappone. Anche l’Italia ottenne qualche compenso coloniale ed in seguito, nel 1935-1936, occupò l’Etiopia, segnando in tal modo l’ultima espansione nel continente africano pensando anche di riscattare il disastro della Guerra d’Abissinia di 40 anni prima.
Dopo il primo conflitto mondiale erano iniziati ad emergere i numerosi limiti del sistema coloniale, che iniziò la sua fine dopo la Seconda guerra mondiale. Ma come ci comportammo noi europei in quei territori? Potremmo citare l’esempio del re belga Leopoldo II e dei suoi misfatti in Congo, del suo regime commercial-militare fondato sul terrore per massimizzare la resa economica del caucciù. Ogni villaggio aveva il compito di consegnare agli emissari del re una certa quota del prezioso prodotto, chi era reo di consegnare meno di quanto richiesto poteva essere punito addirittura con la mutilazione di una mano, o di un piede; nel caso donne delle mammelle.
Oppure si potrebbe citare il genocidio dei popoli herero e nama ordito dai tedeschi tra 1904 e il 1908 in Namibia. E come non ricordare il 19 febbraio 1937, l’ignobile rappresaglia seguita al fallito attentato contro il Viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani, ad Addis Abeba. Prigionieri e semplici passanti vennero bastonati, pugnalati, impiccati, investiti o bruciati. Dovrebbe essere quindi obbligatorio, anche da un punto di vista storico oltre che politico, domandarsi se “aiutiamoli a casa loro” sia un’espressione di altruismo o d’ipocrisia. Ci riferiamo ad un’Europa che torna a voltarsi dall’altra parte (come ha sempre fatto) o è un’Europa che si scopre improvvisamente generosa e vuole risarcire quei popoli che ha sfruttato e depredato? Aiutiamoli a casa loro, dunque? Oppure a “casa loro” abbiamo già fatto abbastanza?
Rosa Marci